Cosa si impara lavorando in un giornale digitale

Rispondo volentieri a Claudio Plazzotta di Italia Oggi che l’altro giorno, raccontando i conti disastrati dell’editoria digitale indipendente in Italia, mi ha chiesto sul suo giornale se mi fossi pentito di aver lasciato un posto da inviato de La Stampa per approdare a Linkiesta. Gli telefonerei se fosse solo un fatto privato. In realtà i conti e la salute di un’azienda editoriale non sono un fatto privato, anzi offrono l’occasione per fare alcune considerazioni sul presente e sul futuro dei giornali.

E dunque…

No, non mi sono pentito della scelta che ho fatto perchè in poco più di un anno ho imparato un sacco di cose. Potrebbe sembrare una magra consolazione visti i conti del giornale che dirigo, ma non è affatto così.

A gennaio 2013 ho lasciato il porto (sicuro?) dei grandi giornali perchè avevo voglia di mettermi alla prova, sperimentare cose nuove al tempo della grande distruzione tecnologica. Provare a gestire il cambiamento invece che subirlo passivamente.

Chi lavora da tanti anni nell’editoria non può non sapere come vanno davvero le cose, anche se non ce lo si dice mai per una malintesa solidarietà di casta: nel ventennio 1985-2005 la crescita pubblicitaria e il business degli allegati hanno drogato il conto economico dei giornali giustificando inefficienze, cattive gestioni manageriali e conservatorismi giornalistici, prescindendo molto spesso dall’innovazione di processo e di prodotto. Sono stati gli ultimi fuochi di un modello al capolinea: la produzione fordista di notizie generaliste basate su un monopolio (all’epoca naturale) informativo, ormai eroso dalla rivoluzione tecnologica e l’avanzata dei giganti di Silicon Valley. Quando poi sette-otto anni fa la crisi economica ha incrociato la disintermediazione tra contenuti e contenitori, la frittata era già fatta ma abbiamo continuato a fare finta di niente. Mentre il mondo dell’editoria nei paesi anglosassoni sperimenta(va), riforma(va), tenta(va) nuove vie di prodotto e di monetizzazione (anche da loro è crollata la pubblicità), in Italia si è preferito mettere la testa sotto la sabbia. Tutti quanti: aziende editoriali, manager, direttori, azionisti, giornalisti. Il massimo delle risposte sono state:

[Continua a leggere su Linkiesta del 26 giugno 2014]

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