Parmalat, Bulgari, Gucci, Loro Piana, Valentino, Edison, Avio, Marazzi, Cariparma, Bnl, Ducati, Alitalia, Pirelli (mezza russa), qualche controllata di Finmeccanica, Telecom ormai in condominio con spagnoli e arabi, Lamborghini, le grandi acciaierie, Fiat diventata americana (e olandese e inglese) come se in questo paese, a differenza che Francia e Germania, non si potessero più produrre automobili, e tanti altri gioielli e multinazionali tascabili.
A colpire non è tanto la fuga o la vendita allo straniero come raccontano allarmati i giornali (l’Italia ha bisogno come il pane di maggiori investimenti dall’estero), quanto il modo in cui si (s)vende senza alcuna strategia, sull’onda emergenziale e, soprattutto, la preoccupante desertificazione industriale a cui sta andando incontro questo paese. Altro che casta politica!!! Anche perchè quando non svendiamo o non passiamo la mano, quelle poche grandi aziende rimaste finiamo per rovinarle in tribunale (Finmeccanica docet) o nel tinello di famiglia, come dimostra il caso Luxottica di questi giorni.
Quasi nessuno ne parla ma la scomparsa delle grandi impresein Italia è qualcosa di stupefacente. Grave. Preoccupante. Che ha molto a che fare con la nostra infinita stagnazione. In pochi paesi sono caduti tanti idoli e tanti poteri forti. Certo non è successo in Germania, ricordava qualche tempo fa Stefano Cingolani, dove comandano i soliti noti: il complesso bancario-industriale (Deutsche Bank-Daimler), Allianz, i Krupp, i Quandt, Siemens, Bayern, Porsche, nomi che troviamo prima della guerra, alcuni di loro fin dai tempi di Bismarck. Certo, non accade in Francia: tranne qualche eccezione, le istituzioni finanziarie e industriali forgiate dal sistema di potere gaullista sono rimaste i punti di riferimento anche per la gauche. Per non dire degli Usa dove la vecchia schiatta di grandi corporation novecentesche è stata lautamente sostituita dai giganti high-tech della Silicon valley.
In Italia, invece, chi era al comando 20-30 anni fa oggi è alternativamente sul viale del tramonto, scomparso, in fuga, fallito, in preda a faide famigliari, è diventato rentier o ha cambiato pelle senza alcun ricambio. In poco meno di trent’anni abbiamo diserbato un intero panorama industriale, da Snia a Falck, da Bastogi a Ferruzzi alla Carlo Erba. Sono entrati in un cono d’ombra protagonisti del miracolo economico come i Lucchini e gli Orlando, altri si sono ridimensionati come i Marzotto, lacerati da una faida dinastica.
Se prendiamo la classifica dei gruppi privati italiani con oltre diecimila dipendenti di metà anni Settanta e la confrontiamo con quella di oggi, in vetta troviamo (sempre) la Fiat ormai scappata in America; la numero due, la Montedison, non c’è più da un pezzo. Pirelli, al terzo posto, si è letteralmente dimezzata e russizzata dopo aver giocato per anni con la politica e le frequenze telefoniche. La numero quattro, la Olivetti, è un ricordo romantico, una scatola vuota. Chi invece si è affermato a cavallo dei Settanta/Ottanta come Benetton, dopo una stagione di grande successo nell’abbigliamento – sono stati Zara vent’anni prima di Zara -, ha preferito infilarsi nel mercato delle tariffe e dei servizi regolati perdendo molta della propria capacità innovativa. Mentre i due rivali Berlusconi (Mediaset/Fininvest) e De Benedetti (Cir) hanno deciso di fare politica, direttamente il Cavaliere, indirettamente l’ingegnere alla guida del gruppo l’Espresso-Repubblica.
Dunque il capitalismo italiano è uscito via via dai settori innovativi a maggior valore aggiunto (chimica, farmaceutica, elettronica di consumo, informatica), con Telecom mezza straniera di fatto sta passando la mano anche sulle Tlc. E con Fiat diventata Fca si è ormai ritirata dalla produzione di massa in Italia. Fuori da questo quadretto depresso non restano che le imprese di stato sotto l’ombrello del Tesoro o della Cassa depositi e prestiti (Eni, una Enel super indebitata e una Finmeccanica dimagrita), qualche gruppo internazionalizzato nel food (Ferrero) e le Generali, tornate finalmente a fare il proprio mestiere di assicuratori scampando per un pelo, con Mario Greco, il destino pericoloso e penalizzante di super holding dell’asfittico capitalismo italiano a cui cercava di relegarla una sempre più residuale Mediobanca.
Con una eccezione importante. Fino a questa estate avremmo certamente aggiunto anche Luxottica, il colosso degli occhiali, uno dei marchi più belli del made in Italy. Luxottica è stata per anni la prova lampante che (anche) in Italia le imprese piccole, nate dall’intuizione geniale del fondatore, potessero crescere, affrancarsi dalla prima generazione, industrializzare i processi, prosperare e affermarsi sui mercati globali non solo nella manifattura ma anche nei servizi. Superando le tipiche tare del nostro capitalismo: l’idea ossessiva di possesso, il tratto padronale, la difesa della “roba” costi quel che costi, la commistione tra famiglia e impresa, la chiusura al capitale e alle competenze esterne, la scarsa patrimonializzazione, i cortocircuiti della successione dinastica.
Ecco, Luxottica è stata per molto tempo (speriamo lo resti) tutto questo: un simbolo, una bandiera, un esempio, un manuale vivente di industria e management, un caso di successo da Agordo a Wall Street. Poi a Leonardo Del Vecchio, il paron, ad un certo punto gli si è spenta la lampadina. E’ successo più o meno la scorsa primavera. Sarà stato l’horror vacui degli ottant’anni, le pressioni di figli e mogli per avere un posto al sole in azienda, la malintesa competizione con il top manager Andrea Guerra con cui l’azienda si era sempre più immedesimata negli ultimi anni, sull’onda dei successi internazionali. Sta di fatto che in poche settimane, tra agosto e metà ottobre, Del Vecchio si è rimangiato tutto quel che aveva fatto negli ultimi trent’anni in termini di separazione tra proprietà e gestione, indipendenza del management e apertura alle competenze esterne. Come un padroncino qualunque. Proprio lui, in Luxottica, che aveva insegnato alle migliaia di paron italiani che l’azienda sarà pure più importante della famiglia ma ad un certo punto va superata l’ossessione del “faso tuto mi”, devi saperti costruire una successione perché l’unica eredità che conta, per quanto tu possa essere geniale, è far sopravvivere l’impresa al suo padre padrone. Dandole un futuro solido e prospero.
Paradossale, no? Almeno per chi ha sempre pensato che dopo Guerra in Luxottica sarebbe arrivato un altro Guerra, non ci sarebbe mai stata la rivincita del fondatore o una guerra dei roses in sedicesimo. Nel frattempo i mercati speculano perchè l’azienda fa gola a tanti. Cerchiamo di rimediare, prima che sia troppo tardi…
[Pubblicato su Destouches, settembre 2014]