I custodi dell’acqua. Le dighe alpine e la lotta alla siccità

“Lo vede quello scivolo d’acqua che entra nel lago? È la poca neve caduta questo inverno che si sta già sciogliendo…”, mi dice il guardiano della diga Edison di Venina, in alta Valtellina.

Di solito i primi scioglimenti cominciano verso metà aprile, gradualmente, e proseguono fino a luglio inoltrato, fornendo la “benzina” necessaria a ricaricare le falde, all’approvvigionamento energetico e all’agricoltura. Ma in questi giorni fa già caldo, troppo caldo. È un mezzogiorno soleggiato di metà marzo e ai 1.823 metri del lago Venina ci sono 11 gradi di temperatura.

In Val Venosta, Alto Adige, nella diga di San Valentino l’acqua del lago di Resia, famoso per il campanile a forma di matita che spunta fuori, sopravvissuto al mondo di ieri, è così bassa che si vedono i canali di collegamento tra i due vecchi laghetti uniti dopo la Seconda guerra mondiale, quando la Montecatini decise di allagare tutto l’invaso per fare solo un grande bacino (il più grande lago dell’Alto Adige) e spostare l’abitato di Curon sul fianco della montagna.

Anche alla diga di Larecchio, nell’alta valle Isorno sopra Domodossola, il lago artificiale è piuttosto scarico. “Capita in questi periodi di svasarlo per fare posto alla neve che si scioglie e alle piogge che di solito cadono abbondanti. Da queste parti ci chiamano la valle del pianto…”, dice con un filo di nostalgia un tecnico della società Idroelettriche Riunite (gruppo Beltrame) che lavora nella vicina centrale di Pontetto. Ma ora il bacino è desolatamente basso e così resterà “visto che di neve, e di acqua, anche a 1.853 metri di altitudine, se ne vede pochissima.”

Per capire la grave siccità che colpisce il nostro paese bisogna salire sui grandi bacini idroelettrici in Alto Adige, Piemonte e Valtellina. Girare in mezzo a fiumi, laghi e ghiacciai storicamente ricchissimi d’acqua e parlare con la gente di montagna, o con chi la conosce bene perché ci lavora da anni. Di solito hanno pensieri chiari e memoria lunga.

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