Qualche giorno fa Olli Rehn ha dato un’intervista a Repubblica in cui accusava l’Italia di non rispettare gli impegni presi e di non fare le riforme concordate. Apriti cielo. Non era mai successo che un commissario europeo intervenisse a gamba tesa nel dibattito di un paese membro con frasi ultimative. Retroscena e messaggi fatti filtrare dagli uffici stampa sì, ma mai in quel modo esplicito. L’Italia non è la Grecia e l’intervista è diventata uno spartiacque, il segnale che l’Europa è sempre più centrale nel dibattito pubblico nazionale. A torto o a ragione.
Il giorno dopo su Linkiesta abbiamo raccontato chi fosse Olli Rehn e perché verosimilmente avesse fatto quell’uscita poco in linea con l’approccio felpato di Bruxelles. Punta a correre per la successione a Josè Barroso alla presidenza della Commissione, si è detto, è ormai in campagna elettorale per questo attacca l’Italia.
Eppure non basta questo a cavarsela. Non può essere una scusa. Le stesse risposte piccate di europeisti ortodossi come il premier Letta o Giorgio Napolitano vanno ben oltre i circuiti dell’euro-scetticismo e dimostrano una cosa: la dimensione europea ci è ormai atterrata in casa, non solo sotto forma di parametri di Maastricht, coordinamento delle politiche economiche e fiscali più o meno spinte, ma entrano a pieno titolo nelle scelte di consenso dell’opinione pubblica proiettandosi sul voto di primavera quando le elezioni europee non saranno più solamente il classico appuntamento di mid-term che i partiti italiani usano per contarsi; per la prima volta avranno una valenza diversa: saranno un referendum sull’euro e la costruzione europea. L’integrazione automatica è finita da un pezzo, addio funzionalismo anni Novanta, se non si pedala in avanti la bicicletta cade per terra.