Vent’anni di niente, parlando di Silvio B.

Non capisco cos’abbia da festeggiare chi brinda alla condanna di Silvio B., il Caimano finalmente in trappola dopo un lungo e spettacolare inseguimento giudiziario; capisco ancora di meno l’esercito di Silvio che vorrebbe rovesciare tavolo e governo a dispetto di una condanna ormai definitiva ed esecutiva per frode fiscale e tirare per la giacca il presidente Napolitano, chiedendo sguaiatamente la grazia e l’impunità per il proprio capo. In uno stato di diritto le sentenze si possono criticare, ci si può lamentare per l’accanimento vero o supposto, ma si accettano sempre. Su questo punto non si può retrocedere né avrebbe senso mischiare i campi, far cadere un governo come rappresaglia per la condanna in tribunale.

Per chi è liberale da sempre e aveva vent’anni quando Silvio B. è sceso in campo, la sentenza di Cassazione di giovedì sera provoca amarezza e qualche breve ragionamento da condividere perché chiude un lungo ciclo politico delle occasioni perse. Il nostro primo, vero, ciclo politico.

Non c’è bisogno di essere berlusconiani (o esserlo stati) per riconoscere cosa si agitasse intorno al Cavaliere in quei mesi a cavallo del 1993-94: il programma economico di Antonio Martino, una ventata liberal-liberista in un Paese ingessato da caste, corporazioni, veti, inefficienze, corruttele e uno sterminato apparato pubblico; “l’impresa al centro” e la scoperta mediatica delle Pmi, per anni culturalmente neglette o riassunte esclusivamente nella grande impresa pubblica ammanicata con la politica o privata (spesso sussidiata); una grande infornata di esponenti della società civile che entrano in Parlamento e nei parlamentini di tutta Italia dopo la cesura di tangentopoli; la batteria dei Martino, Urbani, Rebuffa, Colletti e Melograni che decisero di appoggiarlo, professori così diversi dall’universo snob dell’accademia italiana; un linguaggio chiaro finalmente all’altezza della gente, capace di superare la lingua di legno e il dissimulare continuo della Prima repubblica; e lo straordinario consenso di una borghesia più minuta e sfrangiata, esplosa coi consumi degli anni Ottanta, di quella a cui erano abituati i vecchi partiti: partite iva, ceti produttivi e professionali, piccoli e medi imprenditori, artigiani che decidono di dargli fiducia. Il blocco di una Italia moderata che avrebbe dovuto, specularmente, dare una sferzata salutare all’intero sistema politico e a una sinistra ex Pci vecchia e bolsa, miracolata dalla storia terribile del Novecento. Una specie di effetto Thatcher, in attesa del riformismo di un nostro Tony Blair.

[Continua a leggere su Linkiesta del 3 agosto 2013]

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